PIER DELLE VIGNE

Pier delle Vigne (o Pier della Vigna) è stato un famoso politico e letterato vissuto presso la corte siciliana di Federico II di Svevia, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero, inizialmente come notaio. Dopo aver conseguito brillantemente la laurea in giurisprudenza a Bologna, si racconta che fosse stato presentato all’imperatore dal vescovo di Palermo in persona nel 1220, anche se, secondo alcuni storiografi, la data potrebbe essere successiva a quest’anno.

Il suo nome originale era Petrus de Vinea. Nato a Capua (oggi in provincia di Caserta) nel 1190 (ma neanche in questo caso si è sicuri della data), presso la corte di Sicilia entrò a far parte della cerchia di poeti e letterati che ruotava attorno alla figura dell’imperatore, la cosiddetta “Scuola Siciliana”. Maestro nella cosiddetta “ars dictandi”, ossia nell’arte epistolare, la sua opera più famosa è appunto l’ Epistolario latino, che contiene anche lettere di altri autori.

Fu uno dei collaboratori più stretti di Federico II, che nel 1230 lo fece anche suo ambasciatore (il suo incarico più famoso fu in Inghilterra presso il re Enrico III Plantageneto). Dal 1239 assunse poi anche la carica di primo notaio (protonotaro) dell’impero, di “gran giudice della corte imperiale” e successivamente anche di logoteta (gran cancelliere).

Nel 1231 collaborò con Federico per redigere le famose “Costituzioni di Menfi” , uno dei più importanti codici di leggi della storia, e nel 1235 poteva vantare, tra terreni e forzieri, il patrimonio più vasto di tutto il regno di Sicilia.

Tuttavia, lo stesso imperatore cominciò pian piano a sospettarlo di corruzione, e in particolare di denunciare, quale giudice, molte persone innocenti di gravi reati onde confiscare loro i beni ed appropriarsene. Forse la fame di ricchezze gli fu attribuita perché – si diceva – proveniva da una famiglia molto povera e aveva dovuto mendicare per pagarsi gli studi a Bologna. Oggigiorno, gli storiografi non sono in grado di affermare se le accuse fossero vere oppure no.

Nel 1249 Federico II lo fece arrestare con l’accusa di aver partecipato a una congiura contro la sua persona (in particolar modo, fu accusato di aver tentato di avvelenare l’imperatore). Venne poi fatto accecare e relegare in carcere in Toscana (non si conosce bene il luogo), dove morì poco dopo, anche se la causa è ancora sconosciuta. La versione più “romantica” della storia vuole che si sia suicidato.

Quest’ultima versione è quella che propone anche Dante Alighieri nel XIII canto dell’ “Inferno”, la prima delle tre cantiche de “La Divina Commedia” scritta intorno al 1300. Qui Dante immagina di incontrare Pier delle Vigne nel girone infernale dei suicidi, dove le anime si trovano trasformate in alberi, costrette all’immobilità ma dotate ancora di voce e di sangue. Non solo, ma possiedono anche un attaccamento morboso verso il proprio corpo (Pier delle Vigne non vuole infatti che Dante stacchi uno dei suoi rami) e vengono continuamente straziati dalle Arpie, mostri con il corpo di avvoltoio (o di aquila) e la testa di donna, patendo innumerevoli sofferenze. Per Dante, questa è la giusta punizione per coloro che non si sono fatti scrupoli di fare del male al proprio corpo e di abbandonarlo per andare verso la morte.

Illustrazione di Gustave Doré della selva dei suicidi descritta da Dante Alighieri ne “La Divina Commedia”.

Con questo canto, l’ Alighieri vuole riabilitare la figura di Pier delle Vigne, facendogli confessare la sua innocenza nell’aver preso parte alla congiura. Nel canto, infatti, l’anima rivela di essere stata ingiustamente accusata per invidia del suo successo e delle sue ricchezze, ma di aver ceduto alla disperazione compiendo un gesto estremo, e di essersi così macchiato di un crimine atroce pur essendo nel giusto.

Famosi sono i versi:

«L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.»

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